Dono o castigo?
Ecco cosa ho imparato quando ho provato a studiare una nuova lingua
E’ da qualche anno che desidero imparare a parlare una nuova lingua. Durante la quarantena si è data l’occasione perfetta per iniziare a farlo e così ci ho provato.
Il primo esperimento è stato con lo spagnolo. Essendo “neo-latina” mi sono bastate poche ore per riuscire a formulare le frasi più essenziali: a dire il mio nome, a chiedere “che tempo fa?”, del resto questa è la domanda, da avere sempre pronta, per quando non si sa cosa dire. Il secondo esperimento è stato più temerario, lo ammetto. Mi sono buttata sul cinese. La Cina mi incuriosisce profondamente e il fatto che sia la seconda lingua più parlata al mondo dopo l’inglese, la rende ulteriormente interessante. Peccato che è terribilmente complicata. Non si tratta solo delle parole, della pronuncia, delle costruzioni sintattiche e grammaticali delle frasi ma del mondo, anzi potrei dire dell’universo, di significati e schemi mentali che questa lingua sottende. Ho imparato subito la prima lezione: una lingua è un mondo.
Però il mondo è uno. Ecco perché voglio raccontarvi una storia che già in molti avranno letto: si chiama “Babele”.
«Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra». — Genesi, 11, 1–9.
Sul fiume Eufrate nel Sennar, in Mesopotamia, fu costruita una torre di mattoni. Questa torre doveva essere così alta da raggiungere il cielo, portando l’uomo al cospetto di Dio. Quando la torre fu costruita gli uomini parlavano tutti la stessa lingua e si capivano tra loro, ma Dio aveva comandato loro di disperdersi su tutta la Terra e così fu. Babele, è il nome di quella torre, che non venne mai portata a termine. Babele, che in ebraico antico significa proprio “confondere”. Dono o castigo?
Questo episodio della Genesi racconta l’origine delle lingue. Babele divenne luogo di caos: la gente non si comprende più, ogni individuo parla una lingua diversa, bisogna imparare a capirsi di nuovo. Oggi possiamo farci la domanda: “Quante lingue ci sono al mondo?” proprio perché il progetto di quella torre fallì. Se consideriamo le lingue “ufficiali”, attualmente, sono 6.700 quelle riconosciute. Le più parlate sono: l’inglese (1,13 miliardi), che è la lingua del mondo globalizzato che abbiamo conosciuto fino ad ora, segue il cinese mandarino (1,12 miliardi), l’hindi (615 milioni), lo spagnolo (534 milioni), il francese (280 milioni), l’arabo standard moderno (274 milioni), il bengalese (265 milioni), il russo (258 milioni), il portoghese (234 milioni) e il malese-indiano (199 milioni).
Se penso, quindi, ai miei desideri di studio — spagnolo e cinese sono in classifica.
La lingua che parlo io è l’italiano. L’italiano è parlato da circa 70 milioni di persone in tutto il mondo ed è, all’incirca la 19esima lingua in classifica a pari merito con il cantonese, il telogo (lingua parlata in India e Malesia) e il turco. Proprio perché Dio ci ha voluto “castigare” rendendoci incomprensibili gli uni agli altri, io, ho sempre desiderato avere quella predisposizione — che forse è anche innata — all’apprendimento linguistico. Ci sono quelle persone alle quali “basta un’escursione fuori porta” per riuscire già a farsi capire e comprendere qualche parolina o frase base. Purtroppo io non sono tra queste, ho sempre fatto una gran fatica. Sarà forse che questi individui sono, seppur lontanamente, imparentati con i costruttori di Babele così che si ricordano meglio di altri le radici profonde della comunicazione del genere umano? Questo non lo so. Quel che so è che ricordo perfettamente il mio primo anno di liceo, quando si cominciava a fare sul serio con l’inglese, quando ancora la nostra quotidianità non era pervasa da articoli, video, audio in inglese, lo studio che ci ho dedicato fu intenso. Non era nemmeno stato sufficiente. Per “masticare” la lingua con decoro mi ci sono voluti pure un breve periodo di permanenza in Inghilterra e un pò di mesi a San Francisco.
Questa storia sul mio “non essere troppo portata” per le lingue — come si suol dire — è per raccontarvi la seconda lezione che ho imparato: Babele o non Babele, ne ero certa, che gli esseri umani avrebbero trovato un modo per rifarsi al giudizio di Dio. Troviamo sempre una soluzione, per quanto lavoro essa ci richieda.
Volendo imparare una nuova lingua, condizionata dal mio animo da filosofa che mi induce sempre a farmi strane domande, ho scoperto che ci sono curiosità molto interessanti sulle lingue del mondo.
La prima è sicuramente sapere che la più grande concentrazione di lingue parlate si trova in quelle zone del Pianeta in cui c’è maggiore biodiversità, per esempio nelle foreste pluviali tropicali dove ci sono circa il 36% dei gruppi etno-linguistici del mondo.
Inoltre, esistono idiomi che sono parlati da pochissime persone: gli studiosi hanno rintracciato, addirittura, 199 idiomi parlati da meno di 10 persone. Per fare qualche esempio il Wichita in Oklahoma, il Karaim in Ucraina. Per non contare, poi, tutti i dialetti locali. Quando parliamo di lingue è naturale avere la tendenza a conteggiare e classificare quelle “ufficiali” (parlate, scritte, istituzionali) ma esistono realtà come il Papua Nuova Guinea in cui ci sono oltre 800 lingue parlate. Senza andare troppo lontano, perfino il mandarino parlato in Cina ha tantissime sfumature. Oppure, giocando in casa, vale lo stesso per l’italiano. La questione della lingua italiana post-unità d’Italia, per esempio, è ancora oggi una questione aperta proprio perché la forza e la preponderanza dei dialetti è molto viva in diversi contesti del Bel Paese. Se poi penso, ancor più da vicino, alla mia straordinaria Bergamo, il bergamasco, il dialetto locale, non è affatto secondario: continua ad essere parlato dagli anziani e preferito dai più giovani durante comunicazioni e uscite (molto) informali.
La terza informazione che voglio condividerti riguarda il rischio di estinzione delle lingue: l’Unesco ha lanciato un grave allarme affermando che circa 250 lingue stanno per scomparire. Negli ultimi 500 anni sono scomparse oltre la metà degli idiomi del mondo. Valutando la situazione degli ultimi decenni si calcola che, entro la fine di questo secolo, addirittura il 90% delle lingue parlate potrebbe cadere in disuso in nome di una lingua più globale e più comune.
Anthony Aristar — grande ricercatore e linguista — diceva chiaramente che:
“Una lingua non è fatta solo di parole e grammatica, è una rete di storie che mettono in contatto tutte le persone che usano ed hanno usato in passato quella lingua, ha in sé tutte le conoscenze che una comunità linguistica ha lasciato ai suoi discendenti. La morte di una lingua è come la morte di una specie, con essa si perde un anello della catena e tutto ciò che quella parte significava per il tutto”.
Ed eccoci arrivati a quel punto della storia in cui mi chiedo se la scomparsa delle lingue rappresenti una sorta di infausto destino che ci riporta alla trama della torre di Babele? Quando Dio disperse gli uomini e le lingue del mondo, il fatto di avere più modi di esprimersi fu percepito assolutamente come un dramma, un castigo, una punizione inflitta al genere umano. La comprensione sarebbe stata impossibile perché ancora si sottovalutava il grande sforzo che l’uomo avrebbe compiuto per apprendere il linguaggio altrui e tornare a condividere. Il multilinguismo di chi impara una lingua diversa dalla lingua madre è uno sforzo — è vero — ma se comparato al valore della “biodiversità” linguistica è poca cosa. Oggi possiamo capirci di nuovo, abbiamo sviluppato strategie d’apprendimento linguistico efficaci, studiamo, viaggiamo, facciamo ricerche. Con la globalizzazione ci siamo perfino ricreati, in un certo senso, la nostra “pre-Babele”, nominando l’inglese la lingua ufficiale degli scambi e delle relazioni internazionali. Che sarà sempre l’inglese o una nuova lingua, che sarà una o più di una, ormai ci siamo abituati ad uno sforzo linguistico a cui gli uomini di Babele non erano pronti.
Perciò, quell’episodio raccontato nella Genesi, più che un castigo vero e proprio, credo sia da leggersi come un dono di ricchezza. La complessità del genere umano, la sua peculiarità risiede anche nelle sue diverse capacità di espressione, nelle infinite sfumature delle parole, nei concetti che queste ultime fissano.
Babele terrorizzò gli uomini di allora perché li portò a convincersi che la lingua avesse a che fare solo con la comprensione del significato delle parole; in realtà, credo proprio che quello che nel corso di questi anni abbiamo imparato (terza lezione) è che la lingua riguardi più che altro il rendere le parole ricche di significato. Una nuova lingua porta con sé nuovi concetti che prima non esistevano:
è un sistema di comunicazione usato da una comunità specifica per capirsi, identificarsi, definirsi in quanto tale.
Una lingua non è fatta solo di parole: è para-verbale, non verbale, situazionale. Il motivo del perché si dica che “vivere un luogo sia il miglior modo per impararne la lingua” è proprio perché, più entri in quel sistema sociale, più lo conosci e più impari come esprimerti coerentemente.
La lingua? Non è solo ascoltare e ripetere, osservare e dire, ma è soprattutto sentire, esperire e condividere.
Così oggi, diversamente da un tempo, ci troviamo a ringraziare colui che ci ha castigato.