Individualismi in un’epoca di greggi

Federica Ongis
5 min readApr 24, 2021

--

Si dice che sia difficile trovarsi al centro di un’epoca e provare a giudicarla da quella prospettiva. Per questo esiste la storia, che altro non è che il giudizio a posteriori che gli esseri umani esprimono su ciò che è accaduto tempo prima. Eppure, ognuno di noi ha un parere su quel che accade nel presente. Che cosa ne pensi degli individualismi del nostro secolo?

Oggi desidero mettere sul tavolo tre riflessioni.

(1) Al primo posto, un paradosso. Credo che la nostra epoca presenti un paradosso: viviamo in un mondo iper connesso e, al tempo stesso, non riusciamo a spiegare perché ci sentiamo così distanti gli uni dagli altri. Non solo tra gli stati, ma spesso anche tra le persone, abbiamo la netta sensazione che continuino ad erigersi muri. Tra i diversi motivi Internet e la rivoluzione tecnologica giocano un ruolo di rilievo. La rivoluzione tecnologica ha favorito la personalizzazione il cui rovescio negativo è una forte, se non eccessiva, polarizzazione. Il che ha ridotto, con gli anni, il nostro senso di “appartenenza ad una comunità”. Senza soffermarci troppo sulle rappresentazioni esplicite di quei bimbi che già a pochi anni — se non addirittura mesi — di vita trascorrono ore con la testa chinata sullo smartphone o sul tablet, è un’esperienza comune a ciascuno di noi quella di “sentirci più soli online”. C’è un aspetto interessante di questa forma contemporanea di individualismo — se così possiamo chiamarla — è alienante come quelle del passato, ma ha le sembianze di un gregge. E’ interessante notare, infatti, come quante persone si vedano e si percepiscano simili e, contemporaneamente, si sentano sole e incapaci di formulare giudizi personali. Come esseri umani siamo condizionati, influenzati e trascinati da ciò che fanno gli altri più di quanto possiamo immaginare. Il nostro cervello si è evoluto per trascinarci nel gregge. Da un lato, questa evoluzione, serviva a farci sentire parte di una comunità, a fomentare il nostro senso di reciprocità; dall’altro lato, aveva la funzione di farci imparare dall’esperienza altrui per poi definire la nostra. Il problema emerge quando la comunità diventa gregge, l’apprendimento imitazione e la reciprocità tramuta in noncuranza.

(2) Al secondo posto, una logica: la logica della comunità vs la logica della community. Se pensiamo ai nostri nonni o ai nonni dei nostri nonni, essi sono cresciuti dovendo accettare che se il loro vicino di casa, il loro compagno di scuola, o un collega non gli andava a genio era necessario fare uno sforzo per vivere serenamente o, quantomeno, per coesistere. La logica di una comunità reale ci insegna che dobbiamo imparare ad andare d’accordo con le persone che ci circondano. Oggi a questa logica si sostituisce la logica della community per la quale, al contrario, non c’è sforzo ma mi “connetto” solo con chi mi sta a genio o con chi la pensa come me. I meccanismi di connessione virtuale fomentano la polarizzazione — come abbiamo visto poco fa — creando bacini di persone che la pensano tutte allo stesso modo ma che, allo tempo stesso, faticano sempre di più ad accettare posizioni alternative o contrarie alla propria visione del mondo. Diventiamo così meno abili, se non addirittura incapaci di confrontarci con gli altri e di trovare uno spazio comune di discussione. Viene meno lo spazio pubblico, inteso come spazio in cui, anche se la pensiamo diversamente, c’è uno sforzo a trovarsi per parlarne. Non soltanto, la polarizzazione a cui conducono le connessioni virtuali è spesso superficiale — non possiamo pensare che basti cliccare “join” per acquisire i valori e le credenze che una comunità reale ti porta ad acquisire in parecchi anni — il che ci intestardisce ancora di più le nostre posizioni. Chi ha una convinzione profonda, per quanto essa possa apparire radicale, ha più voglia e più ragioni di chi ha una convinzione superficiale, di dialogare.

(3) Al terzo posto, un’emozione — se così possiamo chiamarla — ovvero l’empatia. L’individualismo ruba il posto all’empatia. Se abitassi in un condominio e vedessi il tuo vicino di casa morire di fame non gli porteresti un piatto di pasta? Oggi ci facciamo problemi a suonare al nostro dirimpettaio per chiedergli una mano e probabilmente potremmo averlo come amico su Facebook e commentargli tutte le sotries di Instagram. Cliccare su “mi piace” o commentare una foto oppure un video, accresce i nostri livelli di dopamina, ma non aiuta a provare empatia come “dal vivo”. Nella nostra società l’empatia sta diventando una skill evoluta e molto richiesta proprio perché è evidente che, finché le cose non ci toccano in prima persona, tendiamo a non capire cosa significa “mettersi nei panni dell’altro” e provare a rivivere quel che gli è successo per comprenderlo.

Userai di certo Google Maps, o almeno l’avrai utilizzato una volta nella tua vita. Ti è mai capitato di “seguire il tuo istinto” e non quello che diceva il navigatore, rimanere bloccato nel traffico e la volta dopo arrenderti ad ascoltare e seguire pedissequamente le istruzioni del navigatore? Sembra assurdo ma oggi, pare proprio che ci fidiamo più di Google che del nostro istinto o degli altri. Questo ci dice che, al di là di tutto, non c’è tanto un dramma decisionale quanto piuttosto un dramma relazionale e che la nostra epoca ha bisogno di ristabilire e ricreare rapporti sociali autentici.

--

--

Federica Ongis
Federica Ongis

Written by Federica Ongis

HR Training Specialist & Development — Podcaster of “Seven O’clock” Podcast — Woman-philosopher. Passionate about behavioural sciences and neuroscience.

No responses yet