La felicità sta nelle piccole cose

Federica Ongis
10 min readAug 26, 2023

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… E me l’ha detto il pakistano da cui ho comprato le rose “capo ricordati che la felicità sta dentro alle piccole cose” — “Nonono”, Pinguini Tattici Nucleari

Sono rientrata da poco da un viaggio nel Sud Est Asiatico. Per chi non avesse mai viaggiato in questa regione geografica del mondo, il mio è un caldo invito a farlo. Questa volta sono stata in Indonesia, un paese che molti conoscono per le incredibili bellezze naturalistiche, i paesaggi da togliere il fiato, le forti radici culturali, ma soprattutto per le persone. Si tratta di una diversità shock per chi vive in Occidente, specialmente per chi come me vive nel Nord-Italia. Almeno io, resto sempre molto colpita dai locals. Mi fanno sempre riflettere. Gentili, disponibili, onesti e sorridenti. Eppure poveri, spesso senza un lavoro o senza un’attività stabile, senza una casa, con molte (ma molte) meno possibilità di quante ne abbiamo noi. Sanno molto bene, grazie al turismo e all’accesso ad Internet, come viviamo noi turisti occidentali e benché talvolta non manchino di invidia verso la nostra fortuna, in un certo senso, sono felici. Aggiungo: appaiono molto più felici di quanto non lo siamo noi. Così, ogni volta che rientro in Italia mi chiedo: ma dove sta la felicità? E… Che cosa significa essere felici? (Da filosofa non posso esimermi da fare qualche riflessione proprio sulla felicità e questa è la volta buona!).

Di che cosa ha bisogno la felicità?

Il potere della semplicità

L’Indonesia di oggi è ancora un paese povero, per quanto in via di sviluppo. Somiglia pressoché all’Italia del secondo dopoguerra: cresce, attrae investimenti e turismo ma per la gente del luogo non è abbastanza. Girando tra le vie delle città, in un certo senso, mi sembra di risentire le parole di mia nonna quando dice che “ai suoi tempi non c’erano tante possibilità come oggi”, facendo riferimento ad aspetti della nostra quotidianità che noi diamo per scontati. Se pensiamo a come è cambiata la nostra società negli ultimi 100 anni (o poco meno) ci rendiamo conto che le persone di ieri vivevano una vita molto più semplice della nostra. La mobilità sociale, ovvero la possibilità di scalare da una classe sociale all’altra grazie al lavoro, all’accumulo di ricchezze e al successo professionale, era pressoché inesistente. Nascevi dove eri e stavi dove eri. Così, anche le aspettative e le motivazioni individuali, erano molto più contenute e radicate. La nostra, al contrario, si erige sul consumo e sul concetto di performance, per il quale ci convinciamo che fare di più, guadagnare di più e avere di più sia la chiave di ogni piacere. In questo senso, senza neppure rendercene conto modifichiamo il nostro modo di relazionarci con gli altri, entrando in dinamiche fortemente individualiste. Contesti come l’Indonesia e il resto del Sud Est Asiatico sono luoghi in cui si respira ancora quel senso di vita comunitario che fa bene all’essere umano in quanto animale sociale. Uno stile di vita più comunitario tende a sofisticare meno e a differenziare meno, e con ciò a rendere tutto più semplice e, dunque, più accessibile a tutti. Anche noi, se ci pensiamo bene, usiamo l’espressione “less is more” per appellarci al valore e al piacere della semplicità, tuttavia, spesso vediamo questa forma di semplicità come un rimedio operativo, un farmaco, per qualcosa che è già di per se troppo complicato e articolato. La semplicità della vita comunitaria che molti popoli ancora oggi vivono, così come la vivevano i nostri nonni, non scade affatto nel semplicismo (come osservano spesso i turisti guardando i locali impegnati in attività quotidiane “banali”), bensì è un modo più radicato, e quindi in un certo senso anche più autentico, di vivere la quotidianità.

La forza della spiritualità

A Bali, si dice che le donne trascorrano dalle 8 alle 12 ore al giorno nelle preparazione di riti e cerimonie, oltre che nella cura della famiglia. La spiritualità qui di certo non manca. Fiori e incensi lungo le strade, fuori dalle case, in porti e stazioni in segno di gratitudine o di buon auspicio. Agli occhi del turista possono apparire come curiosi costumi locali, eppure la forza della spiritualità è un ingrediente essenziale per la felicità. L’Occidente l’ha persa da parecchio tempo. Già Hiedegger nel secolo scorso parlava di società della tecnica per riferirsi al progresso scientifico e alla razionalità logico-analitica prevalente, che hanno indebolito la religione, gli usi e i costumi della tradizione barattando i vecchi miti, con nuovi miti che sostituiscono il Dio con l’Io e la spiritualità con l’istituzione religiosa vuota. Non è tanto un discorso di essere o meno religiosi, piuttosto di comunità vs individualismo.

La disciplina dell’azione

Essere costruttivi. Nella filosofia induista si narra la storia di un principe-condottiero, Arjuna, e del suo dialogo con Krishna, il Signore. La Bhagavad Gita è un testo che contiene profonde riflessioni sugli esseri umani e sugli strumenti di cui essi dispongono per raggiungere la realizzazione sprituale. Il mezzo per eccellenza per raggiungere la serenità è il Karmayoga, ossia la disciplina dell’azione, utile a riportare in armonia elementi in opposizione. Chi non ricorre a questa pratica non troverà mai la felicità; la sua mente continuerà a fissarsi sui sensi, che lo allontaneranno da chiarezza e intelligenza. Solo una mente ferma può unirsi al Supremo e solo chi non è più attratto dal desiderio può raggiungere la vera pace. Krishna invita dunque Arjuna a combattere la sua battaglia, perché l’uomo non può rimanere inattivo, non appartiene alla sua natura. Il tutto senza inseguire vane speranze e pensieri egoistici. Non ci devono essere aspettative né sogni di gloria. Perché il vero nemico, sottolinea Krishna, è il desiderio, che prende svariate forme e che si può paragonare a un fuoco insaziabile. Esso infatti attrae l’uomo, ne rapisce la mente e acceca la sua anima, soffocando ogni possibilità di saggezza e liberazione.

Azione e antifragilità sono due elementi culturali che inducono ad assumere un atteggiamento costruttivo e dinamico nei confronti della vita e, si sa, l’uomo artefice delle proprie azioni non può che esserne felice. Il nostro maestro di surf era un tuttofare: un insegnate di surf durante il giorno, un cuoco, un cantante, un muratore. Tutte queste cose fai? Gli ha chiesto il mio fidanzato, che come la maggior parte di noi in occidente fa un lavoro e al massimo ha qualche interesse extra. La sua risposta? “Never stop learning, chi non si forma si ferma”. Una risposta del genere, che somiglia alle frasi che si sentono di frequente tra le mura degli uffici delle multinazionali milanesi o che si leggono negli articoli post-pandemia, mi spiazza. Perché noi lo diciamo e a volte non lo facciamo, lui era costretto a farlo: a reinventarsi di continuo. Non puoi non essere proattivo. Proprio come è scritto nella Bhagavad Gita l’uomo non può rimanere inattivo. In questo senso, non esiste il “mi è dovuto”, tipico invece delle filosofie e delle religioni di matrice cristiana che si fondano sull’aspettativa di una salvezza futura o sulla convinzione che una mano dal cielo possa arrivare a redimerci. Nell’induismo, come nel buddismo, il Karma dice che: tutte le azioni di questa vita determinano il destino delle vite future pertanto ricevi quello che ti meriti e quello che hai ricevuto è perché te lo sei meritato.

Essere utili a qualcosa o a qualcuno

Nella società della performance ci capita spesso di entrare in routine stressanti che non ci permettono più di capire più se quello che stiamo facendo sia utile a qualcosa o qualcuno. Il motivo? Di nuovo, è una società troppo complessa per essere comprensibile. In contesti più semplici l’utilità del fare è tangibile il che genera una naturale ricompensa. L’essere impegnati in attività quotidiane manuali è molto più appagante (Ikea Effect). Insomma: “Meglio il nostro dovere, benché imperfetto, che il dovere altrui ben adempiuto.”

La gratitudine

“Voi siete fortunati perché potete viaggiare. Io, sono nato qui, cresciuto qui e probabilmente morirò qui. Perciò se mi chiedi se mi piace il mio paese, credo che sia io che piaccio al mio paese”. Questo ci dice che l’aspettativa c’è ma non è logorante e non genera frustrazione. “La polvere d’oro è bella, ma se ti avvicini troppo ti offuscherà la vista”. Nello Yoga si insegna l’arte della gratitudine. Essere grati per ciò che si ha, per chi si incontra. Ogni sera, prima di andare a letto, prendi un quaderno o apri le note del tuo smartphone e appuntati 3 cose per cui essere grato. Sembra uno sciocco esercizio eppure con il tempo, il tuo cervello si allenerà a focalizzarsi su ciò che è, allontanandosi mentalmente dall’idea che ti manchi qualcosa. Questo esercizio ci aiuta ad orientarci verso le cose giuste, verso ciò che è importante per noi, ci radica nel presente e ci aiuta ad uscire dalla dinamica malata della proiezione nel futuro, di cui, al contrario si alimenta la logica malata del progresso continuo. Si può essere felici con poco.

La generosità

A noi piace avere, ricevere regali ai compleanni o nelle occasioni speciali. A chi non fa piacere? Eppure il nostro cervello trova molto più appagamento quando dà. Nonostante questo quando “diamo” lo facciamo sempre con un secondo fine. La generosità è una delle più grandi virtù dell’essere umano eppure incontra tante resistenze. Il fare disinteressanto è principio filosofico molto profondo, è una forma di performance che non chiede niente in cambio, né uno stipendio, né un ruolo, né tanto meno un riconoscimento sociale. Così, quando le nostre risorse scarseggiano facciamo di tutto per tenerle nascoste cosicché siano tutte per noi, diversamente in una logica comunitaria quando c’è meno si condivide di più!

Lasciar andare è scegliere

L’arte di lasciar andare è il primo importante passo verso la felicità. Troppe volte si è condizionati dai desideri, aspettative o giudizi altrui. Spesso i giovani crescono nell’ombra dei propri genitori e solo in età adulta, dopo un lungo percorso di discernimento, comprendono l’influenza negativa e se ne liberano finalmente. Lasciar andare è scegliere: scegliere chi frequentare, a che cosa pensare, che cosa fare… controllare la propria mente e a sentire. Per far questo la meditazione è un’ottima pratica. In Asia è molto diffusa, insieme allo Yoga. Si tratta di una forma di apprendimento di ciò di cui ha bisogno il corpo e la mente. Senti e poi ragiona. Si tratta di una logica inversa rispetto a quella che ci insegnano fin da piccoli: conta fino a 3, ragiona prima di agire. Ragionare troppo ci fa perdere la connessione profonda con il nostro sé e ci allontana dalla consapevolezza di ciò che è giusto per noi, traducendo i nostri bisogni in un linguaggio razionale anonimo.

“Pensa come un monaco”, si intitola così un testo di Jay Shetty. Si tratta di un libro che esplora in maniera semplice il tema della conoscenza di sé e della consapevolezza. L’unico modo per raggiungere la tanto sognata felicità coincide con la scoperta del proprio mondo interiore. Attraverso la meditazione è possibile conoscersi meglio. Secondo Shetty ognuno può diventare monaco. L’essere monaco è infatti uno stato d’animo, quindi l’unico impegno che l’uomo deve prendersi è imparare e assimilare le tre fasi di apprendimento: lasciar andare, crescere e dare.

Vivere senza paura

Sembra assurdo, vero? Eraclito diceva che l’uomo saggio non ha paura, nemmeno della morte perché quando c’è la morte non c’è più l’uomo e quando c’è l’uomo non c’è la morte. Vivere senza paura è assurdo se si pensa che la paura fa parte di noi, è strutturale e rientra tra le emozioni umane più comuni. Ciò che tuttavia sfugge è la natura stessa della paura che può essere buona o cattiva. La paura buona è quella che ci avverte di un potenziale pericolo. Può manifestarsi con prurito, arrossamento delle guance, giramento di testa e ci mette in allerta. Allo stesso tempo c’è una paura cattiva ed è quella che invece svicola per non essere intercettata. Sulla paura cattiva si devono concentrare tutti gli sforzi per sedarla e sconfiggere. Il problema di chi ha a che fare con la paura cattiva può essere complesso da gestire; la paura cattiva parla infatti per sottrazione, distoglie l’attenzione, rimuove, fa dimenticare. La paura è un sentimento complesso il cui effetto negativo si esprime per lo più in un continuo e inarrestabile tentativo di fuga. La paura va invece “vista” e affrontata. Cosa vuol dire vivere senza paura? Durante il nostro viaggio è capitato un fatto infelice. Stavamo rientrando da un’escursione in barca quando dal porto dell’isola vediamo una fumata nera sollevarsi. Notiamo sul volto dei ragazzi con cui eravamo usciti una forte preoccupazione e li vediamo accendere i motori e precipitarsi al molo. Era la loro barca. Stava prendendo fuoco e non c’era più niente da fare. Ora, tu penserai che non sia una grande perdita, ma quella barca, per quelle persone è tutto: l’unica fonte di guadagno e di sopravvivenza, specialmente su un’isola. Se capitasse a te di perdere tutto: casa, lavoro, denaro. Come reagiresti? Credo sia una delle più devastanti forme di dolore se non una delle principali paure dell’essere umano che abita la società dei consumi. Eppure, non appena appurarono che non c’era più niente da fare la loro reazione è stata: sorridere e proseguire. Ecco cosa significa vivere senza paure, non lasciarsi sconfiggere dalla perdita di qualcosa.

La felicità è una scelta

Chiedimi se sono felice: Da dove vieni? Perché sei qui? Dove stai andando? Prova a rispondere a queste 3 domande. E’ difficile vero? Quando saprai farlo conoscerai te stesso e sarai felice diceva il saggio.

Epicuro nella “Lettera sulla felicità” scrive: “Chi dice che non è il momento di dedicarsi alla filosofia sta dicendo che non è il momento di essere felici”. Nelle tradizioni e nella quotidianità di tanti popoli c’è ancora, fortunatamente, tanta filosofia. Più che di una spiritualità religiosa, si tratta di una spiritualità regolata dalla saggezza e dalla semplicità, capace di tenere gli uomini vicini. Forse è questo a a darci la sensazione che siano più felici.

Insomma, non c’è nessuna formula magica per la felicità. Ma credo che si possa scegliere di essere felici. Siamo noi a osservare il bicchiere e decidere se vederlo mezzo pieno o mezzo vuoto. La felicità è tutta questione di prospettive, sempre. Del resto, è sufficiente cambiare contesto, uscire dalla propria zona di comfort, per apprezzare ciò che si ha.

…E così chi ha poco vede in quel poco il proprio tutto e chi ha tutto si dimentica che basta poco per essere felici.

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Federica Ongis
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Written by Federica Ongis

HR Training Specialist & Development — Podcaster of “Seven O’clock” Podcast — Woman-philosopher. Passionate about behavioural sciences and neuroscience.

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