Perché amiamo i dati?

Federica Ongis
4 min readMay 21, 2022

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Viviamo in un’epoca in cui la digitalizzazione ha spalancato le porte dell’informazione. Oggi chiunque può essere una fonte, per quanto più o meno attendibile. Dai social network di vecchia e nuova generazione ai più tradizionali media c’è un modo di comunicare che è estremamente attraente per l’essere umano: i dati! I dati sono informazioni che trasformano i fatti in numeri che somigliano a prove inconfutabili o quantomeno scientifiche. Ancora di più i Big Data hanno un fascino irresistibile proprio perché, considerando grandi quantità di informazioni, ci sembrano “più validi”. Eppure, le statistiche dicono la verità oppure mentono? Proprio come la parole, anche i numeri possono apparire in conflitto con la nostra esperienza personale, o in altre circostanze andare nella stessa direzione. Il giornalista Darrel Huff nel 1954 pubblicò un libro intitolato “How to Lie with Statistics” nel quale mise gli esseri umani in guardia. Huff forniva una serie di esempi per dimostrare come il modo di interrogare un dato, di presentare un dato, o di fare ricerca potesse dare spazio ad interpretazioni molto diverse. Il monito di Huff nasceva dal suo aver capito bene che l’essere umano, per sua natura, tende a fidarsi dei numeri. Anche gli esperti di comunicazione sanno bene che comunicare attraverso i numeri serve a rendere la propria argomentazione forte perché concreta e più difficilmente confutabile. Ma è proprio così?

Facendo un salto indietro nel tempo, il filosofo Friedrik Nietzsche diceva che “Non esistono fatti ma solo interpretazioni di fatti” e probabilmente aveva ragione perché chi ha dimestichezza con i dati sa che perfino i numeri possono essere piegati alla nostra interpretazione del mondo. Purché quantitativi, i dati non dicono la verità ma piuttosto la esprimono in modo significativo. In quello che chiamiamo “il secolo dei dati” o “l’era dei Big Data” la modalità in cui la mente umana categorizza e rappresenta il mondo resta estremamente ancorata ad aspetti cognitivi qualitiativi. Opinioni, condizionamenti emotivi, bias mantengono un certo peso. La buona notizia è che, in mezzo a tanta oggettività, la soggettività acquisisce un nuovo valore.

Dati. Soggettività e relativismo.

I dati sono il petrolio del XXI secolo e le grandi aziende Tech questo l’hanno capito da diversi anni. Tant’è che l’offerta di servizi gratuiti che queste aziende mettono sul mercato ha una sua spiegazione. Come diceva Eveny Morozov: “se una prestazione che ha un costo viene fornita gratis, allora è meglio che ti preoccupi: significa che la merce sei tu!”. Le nostre abitudini, i nostri gusti, perfino la nostra personalità può trasformarsi in un flusso di informazioni che se gestite da un algoritmo ben fatto possono conferire ad uno strumento digitale il potere di prevedere i nostri comportamenti. Quando l’essere umano diventa prevedibile perde potere. Addirittura, c’è chi dice che la tecnologia, in alcuni casi, ci conosca meglio di quanto conosciamo noi stessi. Eppure è sempre di statistiche e di previsioni si parla. Questa considerazione ci stimola, di fronte ad una notizia, a capire che relazione abbiamo e in che modo quel numero può interferire con la nostra capacità di analizzare criticamente un fatto. Gli psicologi parlano di “realismo ingenuo” cioè ci dicono che tendiamo a considerare universale la nostra prospettiva, per questo motivo, affidarsi ai dati può avere un enorme valore nella misura in cui ci apre a considerare punti di vista diversi dal nostro. Tuttavia, in molte situazioni fidarsi della propria esperienza, del buon senso e delle buone intuizioni che appartengono alla dimensione soggettiva del modo in cui giudichiamo le cose ha un valore ancora più importante.

Perché amiamo così tanto i dati? La risposta è semplice: le parole sono vaghe e hanno molteplici significati, richiedono interpretazioni “faticose”, mentre i numeri sono precisi, diretti, concreti e così il nostro cervello per la sua attitudine a risparmiare energia li preferisce e si affida a loro indipendentemente dalla fonte. Il “Confirmation Bias” è una prova di quell’atteggiamento tipico della natura umana che ci porta a confermare un’ipotesi tramite prove a favore, piuttosto che stimolarci a cercare di prendere in considerazione evidenze contrarie. Per questo amiamo i dati perché, molto spesso, rappresentano una commodity e una sicurezza cognitiva.

Che cosa ne deriva? Probabilmente una delle considerazioni più significative in quest’epoca dominata dai dati è che i dati hanno un certo peso specifico e un valore straordinario, non a caso si parla di un’economia di oltre 300 miliardi di dollari entro il 2025. Eppure, questo peso ci dà un’altra indicazione cruciale e cioè che l’essere umano, oggi più di prima, ha bisogno di coltivare un forte spirito critico e tenere la mente aperta per non dimenticarsi che, proprio come diceva Nietzsche che: non esistono fatti, ma solo interpretazioni di fatti e la responsabilità di giudicare cosa ha valore spetta sempre a noi, come persone in carne ed ossa. In altre parole: anche quanto tutto si fa numero, non dobbiamo essere dei creduloni, ma avere la sicurezza di valutare le informazioni con curiosità e sano scetticismo. Del resto la statistica è una scienza guidata dalle domande ecco perché qualcuno direbbe che quello che serve oggi è un sano approccio filosofico!

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Written by Federica Ongis

HR Training Specialist & Development — Podcaster of “Seven O’clock” Podcast — Woman-philosopher. Passionate about behavioural sciences and neuroscience.

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