Perfezionismo: la più grande forma di imperfezione
“Non temere la perfezione, non la raggiungerai mai.” — Salvador Dalì.
Essere perfetti: in molti lo vorrebbero, eppure nessuno lo è.
Fin da piccoli ci insegnano ad ottenere l’approvazione degli altri, a soddisfare certi standard di comportamento a scuola, ad osservare precise norme sociali, ad ottenere alti rendimenti sul lavoro, a lavorare sul proprio aspetto fisico e chi più ne ha più ne metta. Il perfezionismo è la tendenza a considerare intollerabile qualsivoglia forma di “imperfezione”, prendendo come standard, molto spesso, riferimenti al di sopra delle possibilità reali. Benché siamo tutti imperfetti, il perfezionismo domina, e si presenta, specie nella società Occidentale, in forme patologiche anche gravi legate alla preoccupazione che molti hanno di commettere errori, al bisogno di attendere aspettative irragionevoli e ad una forte insicurezza generalizzata. Questa dinamica si manifesta quando, ad esempio, il mio fidanzato — che per natura è un attento osservatore dei dettagli — dice di essere profondamente arrabbiato con se stesso per non aver fatto impiattato la cena come avrebbe voluto.
Il perfezionismo è un problema complesso che coinvolge diversi fattori come il senso di sé, le relazioni interpersonali e fattori contestuali più ampi.
Come si riconosce un perfezionista?
C’è chi bada alla perfezione e segue gli standard imposti dal contesto sociale e relazionale a cui appartiene e chi se ne frega un po’ di più. I veri perfezionisti hanno alcuni comportamenti in comune. Immagina di dover organizzare una festa a casa. Un perfezionista si preoccuperà molto di più della lista delle cose che dovrà fare, dei dettagli dell’organizzazione a discapito del fatto che la festa venga bene. Sul lavoro mostrerà grande dedizione, talvolta non giustificata da necessità economiche, rinunciando ad attività ricreative. Con gli altri ha il piacere ad esibire uno stile di vita parsimonioso, e potrebbe risultare testardo e inflessibile sulle proprie posizioni valoriali.
Come dicevamo il perfezionismo è multidimensionale. Si può parlare di perfezionismo orientato a sé stessi, che si esprime nella tendenza a porsi obiettivi troppo elevati; oppure si può parlare di perfezionismo orientato agli altri, quando le aspettative riguardano ciò che pensano gli altri, o ancora c’è il perfezionismo prescritto dalla società, in cui è la società stessa, nel suo complesso come contesto, a fissare lo standard da perseguire.
Da dove viene il perfezionismo?
Se la perfezione non esiste, qualcuno, da qualche parte, deve pur averci instillato nel cervello una qualche idea di perfezione? Platone si domanderebbe: ma chi è uscito dalla caverna? Risposta: nessuno. Il perfezionismo è il risultato di una prospettiva socialmente accettata che crea nella nostra mente un’illusione di realtà. Quando ci sentiamo attratti dall’Università più prestigiosa o dalla ragazza/o più attraente della scuola non stiamo considerando fattori realmente oggettivi, bensì molte soggettività che, insieme, si erigono a target.
Perché il perfezionismo è esso stesso imperfetto?
Compiere errori fa parte del nostro processo di apprendimento. In un contesto in cui chi non si forma si ferma, provare ad essere perfetti significa negarsi delle possibilità di crescita. Il perfezionismo porta con sé un’attenzione selettiva agli errori e un’interpretazione degli stessi come indicatori di fallimento sia personale che sociale. In questo senso, il perfezionismo insinua nella persona il dubbio sulla sua capacità di portare a compimento un’attività perché convinti che gli altri vogliano chissà che cosa o perché terrorizzati dalle critiche. Risultato: è facile incorrere nel pensiero “o tutto o nulla” e rinunciare così a molte opportunità che si stagliano nel mezzo.
Oltre a generare rigidità e chiusura mentale, il perfezionismo provoca sfiducia nelle proprie capacità consegnandoci ad un atteggiamento rinunciatario.
La perfezione è contraria al fluire dell’esistenza umana. Non è un caso che il “perfetto” si associ alle Divinità: Dio è perfetto, secondo la religione perché non ha tempo, né luogo. Tutto ciò che vive di contro non può esserlo. Insomma, possiamo dirlo: in un mondo perfetto l’uomo non esisterebbe, o peggio, se riuscissimo ad immaginarla un’esistenza perfetta avremmo di fronte una vita perfettamente noiosa ed estremamente prevedibile. Nulla di ciò pertiene all’essere umano.
In filosofia, lo stato di pienezza dell’essere, ossia la perfezione, è lo stato in cui si possiede tutto quanto compete alla sua essenza. Se l’essenza è di ciascuno, spetterà dunque a ciascuno comprendere quale è quella condizione in cui, pur nell’imperfezione, ci si sente perfettamente bene.
La perfezione direbbe Platone non può esser altro che un’idea, ovvero non può far altro che generare tensione tra ciò che è reale e ciò che è ideale. Non può essere qui, perché altrimenti smetterebbe di ispirarci, e se così fosse, smetterebbe di stimolarci. Il perfezionista, andando alla ricerca della perfezione, resterà continuamente insoddisfatto delle proprie decisioni. Rimarrà per sempre nella caverna a guardare le ombre riflesse sulla parete sapendo che, perfino le più realistiche, restano pur sempre illusioni.
Come si sfugge dalla perfezione?
Il modo giusto per vivere in maniera incondizionata non è rinunciare, ma imparare a reagire in modo diverso alle sollecitazioni: è necessario scegliere e discernere, affidarsi alla riflessione che ci aiuta a recuperare chiarezza, in modo da poter prendere atto della situazione e compiere i passi opportuni, perché talvolta siamo proprio noi stessi a costringerci in una routine che ci porta allo stremo, a causa del modo in cui subiamo quanto accade, invece di reagire e cambiare radicalmente approccio. L’autenticità non è una dote, una cosa che si ha oppure no, è una successione di scelte che compiamo giorno per giorno: è una pratica. Scegliere di essere autentici significa avere il coraggio di essere imperfetti, di essere vulnerabili, di stabilire e rispettare confini. Significa sentirsi abbastanza.
«Ho voluto la perfezione e ho rovinato quello che andava bene». — Monet