Pregiudizi. Radicalizzazioni. Chiusure. Cosa centra il cervello con la cultura?
Che relazione c’è tra cervello e cultura?
I nomadi del mare sono una popolazione aborigena del Sud Est Asiatico in cui i bambini fin da piccoli vengono abituati, per tradizione, a trascorrere diverse ore immersi nell’acqua. Sono in grado di stare sott’acqua parecchio tempo e di scendere senza attrezzature a grandi profondità tant’è che hanno sviluppato una capacità straordinaria di leggere sott’acqua. Questa tradizione, tipica della cultura dei nomadi del mare ha prodotto un cambiamento nei circuiti cerebrali della loro gente.
La cultura è un insieme di attività che plasmano la nostra mente e con essa il nostro cervello. Ognuno di noi ha un cervello “culturalmente modificato”. Le nostre abitudini plasmano il nostro modo di pensare e il nostro modo di pensare influisce sulla configurazione del nostro cervello.
Il nostro cervello evolve con l’evolvere delle nostre abitudini culturali
Michelangelo quando dipinse la Cappella Sistina trascorse così tanto tempo a testa in giù che il Vasari, parlando di quell’esperienza, raccontò che, mesi dopo aver terminato l’opera Michelangelo non riusciva più a leggere se non in quella posizione “ribaltata” in cui era stato costretto per tantissimo tempo. Questo ci dice che non servono ere geologiche affinché si verifichi un’evoluzione.
L’idea che il cervello umano sia ancora quello di quando eravamo cacciatori e raccoglitori, tanti e tanti anni fa, è piuttosto scorretta: è vero che condividiamo il 98% circa di DNA con gli scimpanzé, così come è vero che gli scimpanzé hanno un cervello più grande di noi di circa il 3% ma è anche vero che noi possiamo sviluppare oltre un milione di miliardi di connessioni sinaptiche che offrono al nostro cervello un milione di miliardi di occasioni di trasformarsi.
Cervello. Mente. Cultura
Il nostro cervello è altamente competitivo. Quando ha troppe informazioni seleziona. Quando non è stimolato smette di accendersi. Il rischio di avere un cervello altamente dinamico è che, se non si trova nelle giuste condizioni, può diventare anche estremamente rigido. Cosa c’entra questo con la cultura?
Un bambino che nasce in un paese, immaginiamo in Italia, impara l’italiano. Fintanto che è molto piccolo, il suo cervello è in grado di riconoscere un’infinità di suoni è l’essere esposto ai genitori, ai parenti e a persone che parlano soltanto in italiano spinge il suo cervello a rafforzare la capacità di riconoscere solo alcuni suoni. Così, i circuiti “inutili” vengono “dismessi”. Qualora da adulto egli desideri imparare una nuova lingua dovrà richiedere al suo cervello uno sforzo immane e costante, perché dovrà chiedergli espressamente di riorganizzarsi.
Lo choc culturale è prima di tutto uno choc cerebrale. La cultura in cui viviamo, come nel caso della lingua, determina ampiamente ciò che possiamo o non possiamo percepire. Questo spiega perché l’immigrazione, che comporta, ad esempio, la capacità di imparare una lingua diversa dalla propria, è un processo che non si esaurisce mai.
Quando siamo piccoli il nostro cervello prende forma e fissa le basi sulle quali, da grandi, costruiamo tutte le nostre credenze, le nostre abitudini percettive, sulle quali elaboriamo i concetti semplici e anche quelli più complessi. Invecchiando, questo dinamismo diminuisce e così siamo sempre più portati a trovare conferme in ciò che ci è più familiare, a legarci a chi ci somiglia particolarmente, rinforzando così le nostre strutture mentali. Proviamo a micro progettare l’ambiente circostante affinché si adatti a noi piuttosto che sforzarci a fare il contrario. Diventiamo “impositivi” e sempre più incapaci di riconoscere la diversità e la forza dirompente e positiva che avrebbe sulla nostra mente. E’ interessante la tesi di Bruce Wexler (Yale University) che nel suo libro “Brain and Culture” afferma che: parte dei conflitti interculturali a cui assistiamo oggi sono il prodotto di una diminuzione della nostra capacità di avere una mente dinamica.
Essere bambini
Viene chiamato “periodo critico” quell’arco di tempo della nostra vita in cui, da bambini, siamo totalmente aperti al mondo. Viviamo come esploratori. Testiamo tutto ciò che ci capita. La nostra mente e il nostro cervello sono così dinamici da consentirci di elaborare e percepire cose che da adulti siamo incapaci di riconoscere. Da bambini, il fervore elettrizzante della nostra mente ci rende disinibiti. Se la plasticità è una caratteristica tipica dei bambini, agli antipodi della curva della vita, si trova la rigidità. La plasticità è un fenomeno complesso e un paradosso che rivela la natura libera dell’essere umano ma anche la rigidità di molti nostri comportamenti a seconda di come viene coltivata. Perché è così difficile far cambiare idea ad un anziano? Perché diventare adulti può significare diventare monotoni? E’ un’inclinazione che non riguarda solo la società ma anche il fatto che, crescendo, il nostro cervello è più portato a radicalizzarsi per sprecare meno energia. Eppure non è detto che si debba smettere di essere bambini!
Essere bambini significa allenarci e coltivare la plasticità per combattere la rigidità. Significa mantenere la mente aperta, uno spirito non giudicante, un’attitudine disponibile ad accogliere prospettive diverse, abitudini diverse, tradizioni diverse da quelle in cui siamo cresciuti con l’obiettivo di dare, ogni giorno, stimoli nuovi ad un cervello che per non diventare “estremista” necessita di essere sollecitato! Provare cose nuove, essere curiosi ci fa sperimentare gli effetti della dopamina e dell’adrenalina che hanno una funzione anti-atrofica nel nostro cervello, non gli permettono di addormentarsi o sedimentare, facendoci provare l’ebrezza di che cosa significa letteralmente “avere una mentalità aperta”.